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Diritti del concedente risultanti in catasto

04 aprile 2022

1) Genesi dei diritti del concedente. 2) Evoluzione della normativa. 3) Demanio dello Stato 4) Modalità operative.
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1) GENESI DEI DIRITTI DEL CONCEDENTE
Appare utile ripercorrere la storia normativa che genera molti dei diritti del concedente attualmente risultanti in catasto su diversi immobili a favore di enti ecclesiastici, o a favore del demanio dello Stato.
Ancor prima dell'Unità d'Italia, il Regno di Sardegna, a partire dall'anno 1850, con le leggi Siccardi, cominciò un'opera di eliminazione, per via legislativa, di diversi privilegi di cui godeva il clero il quale, fino al 1848, aveva mantenuto una posizione di preminenza tramite norme che consentivano un foro speciale rispetto ai tribunali ordinari, lo esentavano quasi completamente dal pagamento di tributi e tasse, gli conferivano l'esclusiva dell'amministrazione della pubblica beneficienza e dell'istruzione, conferivano l'immunità alle persone rifugiate nelle chiese o in altri luoghi di culto.
Dopo le leggi Siccardi e le abolizioni dei privilegi, Il 29 maggio 1855 venne emanata (siamo ancora nel Regno di Sardegna) la prima legge (Presidente del Consiglio Urbano Rattazzi) con la quale vennero abrogate nella sostanza tutte le strutture religiose che non attendevano alla cura d'anime, o all'educazione e assistenza degli infermi, e i beni fino ad allora di proprietà di detti enti soppressi vennero conferiti alla Cassa Ecclesiastica, appositamente costituita, che tramite la rendita dei beni assegnati doveva provvedere al mantenimento dei religiosi, e per il resto al mantenimento e conservazione dei monumenti, degli archivi e delle opere d'arte conferiti.
Realizzatasi l'Unità d'Italia, la legge 21 agosto 1862 dispose che i beni già assegnati alla Cassa Ecclesiastica passassero al Demanio dello Stato, il quale doveva provvedere a vendere quelli non destinati ad uso pubblico o pubblico servizio, con una procedura d'incanto, e assicurando ai religiosi assistisi dalla detta cassa una rendita del cinque per cento.
Tale Legge, non avendo esteso le disposizioni di quella precedente ai territori non da essa interessati, lasciava ancora fuori dalla sua applicazione diverse aree del Regno (oltre a non avere raggiunto l'obbiettivo di una estesa ripartizione dei beni ai piccoli proprietari stante che molti dei beni alienati erano stati acquistati da persone facoltose).
Per la Sicilia soprattutto si impose l'urgenza di provvedere in merito, atteso che “la Sicilia, le città e campagne della quale rigurgitavano di frati e monache, abati, canonici e sacerdoti, tanto ricchi di beni temporali quanto poveri di pesi religiosi, sentiva più urgente il bisogno di un provvedimento, che valesse a diradare il numero stragrande degli istituti chiesastici regolari e secolari, e a sottrarre, sopratutto, alla manomorta e ridonare alla privata industria i latifondi (ex feudi) e i molti altri terreni, che le fraterie e il clero locale non avevano saputo bonificare” (Annali di Statistica – Ministero di Agricoltura – Industria e Commercio – anno 1879 serie 2 vol. 4 pagina 20).
E così venne emanata, con riguardo esclusivamente al territorio della Sicilia, la Legge 10 agosto 1862 la quale non ordinò la soppressione di tutti i beni appartenenti ad enti ecclesiastici più o meno rientranti fra quelli di cui alle precedenti leggi, ma dispose che detti beni, appartenenti ad enti ecclesiastici non aventi cura d'anime o scopi di beneficienza, venissero da detti enti, tramite una commissione governativa insediata in ciascuna Prefettura, concessi, previo incanto, in enfiteusi in lotti di estensione tendenzialmente di 10 ettari i cui canoni erano destinati al mantenimento dei religiosi. Qualora a causa di inadempimento dell'enfiteuta o per qualsiasi altra causa il fondo fosse stato devoluto al concedente, doveva da questi essere nuovamente entro tre mesi rimesso all'incanto per un nuovo enfiteuta.
Si sottolinea che tutta la proprietà fondiaria ecclesiastica in Sicilia poteva stimarsi in una decima parte della totale superficie produttiva della Sicilia e isole minori.
Ed ecco che si spiega come, oggi, in diverse intestazioni catastali compaiono i più vari enti ecclesiastici variamente denominati.
Qualche anno dopo, con le leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867 si completò (ad eccezione della città di Roma che fino al 1870 non faceva parte del Regno d'Italia) l'opera di soppressione di una ancora più ampia categoria di enti morali e corporazioni religiose, ma si dispose anche che tutti i beni, che non erano stati ancora venduti (con la legge 21 agosto 1862), o concessi in enfiteusi in Sicilia con la legge del 1862, passassero al Demanio dello Stato il quale, in Sicilia, doveva continuare le operazioni di concessione in enfiteusi (art. 34 della Legge 7 luglio 1866), cosicchè per le concessioni successive a tale legge la parte concedente non è costituita dagli enti proprietari dei fondi concessi, come risultava con la legge del 1862, ma il Demanio dello Stato stesso.
Ed ecco come si spiega che nei posti più improbabili troviamo intestazioni, come diritto del concedente, a nome Demanio dello Stato. Non si tratta certamente di beni destinati ad uso pubblico, o facenti parte del demanio necessario, o espropriati per pubblica utilità: trattasi di beni passati al demanio con le norme cosiddette di eversione dell'asse ecclesiastico.
Con la stessa Legge fu istituito il Fondo per il Culto in sostituzione della Cassa Ecclesiastica al quale furono assegnate determinate tipologie di beni, amministrato sotto la dipendenza del Ministero di Grazia e Giustizia (art. 26 della legge 7 luglio 1866 n. 3036).
Infine, nel 1873, fu emanata l'ultima legge, di contenuto analogo, riservata alla città di Roma, annessa dopo il 1870.
L'escursus sopra ripercorso è utile, collegato alle successive normative, per capire il fenomeno che ci interessa.

2) EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA.
Con l'avvento del Concordato nel 1929 molte delle norme sopra indicate furono riviste, molti beni furono restituiti alla Chiesa, e non si procedette più ad ulteriori incanti.
Questo vuol dire che non troveremo mai un diritto del concedente a favore di ente ecclesiastico o Demanio dello Stato dipendente dall'eversione dell'asse ecclesiastico successivo al 1929 (ma credo prima del 1900), per questo ho motivo di ritenere che nessuno di tali enti sia in grado di esibire un titolo, e ciò a parte il fatto che probabilmente molte di queste intestazioni si sono trascinate da precedenti particelle, poi frazionate, ed è tutto da dimostrare che riguardino l'immobile che si intende negoziare e che esso derivi dalle predette particelle.

Con la legge 29 gennaio 1974 n. 16 sono stati dichiarati estinti tutti i diritti che dessero luogo a rapporti perpetui (enfiteusi, censi, livelli) costituiti prima del 28 ottobre 1941 a favore di amministrazioni e aziende autonome dello Stato (ivi compresa amministrazione del fondo per il culto, ma con esclusione degli enti pubblici territoriali come precisato da Corte dei Conti Campania parere n. 18/2006 del 20 luglio 2006) e dai quali scaturisse un obbligo di pagamento, in denaro o in derrate, non superiore a lire 1.000 annue.
Per questo è essenziale che qualora taluno di detti enti pretenda l'affrancazione è obbligato a documentare l'importo del canone, al fine di verificare se non è ricompreso fra i rapporti estinti.
La suddetta legge è stata abrogata nel 2008 nell'ambito della soppressione di leggi datate nel tempo, ma poiché la soppressione ha efficacia ex nunc, l'effetto di estinguere i precedenti rapporti è stato ormai raggiunto.
A seguito della revisione del Concordato nel 1984, è stata emanata la legge 20 maggio 1985 n. 222, la quale all'articolo 60 recita: “Sono estinti, dal 1 gennaio 1987, i rapporti perpetui reali e personali in forza dei quali il Fondo edifici di culto, quale successore dei Fondi soppressi di cui al precedente articolo 54 e dei patrimoni di cui all'articolo 55, ha diritto di riscuotere canoni enfiteutici, censi, livelli e altre prestazioni in denaro o in derrate di ammontare non superiore a lire sessantamila annue.
L'equivalente in denaro delle prestazioni in derrate e' determinato con i criteri di cui all'articolo 1, secondo comma, della legge 22 luglio 1966, n. 607.
Gli uffici percettori chiudono le relative partite contabili, senza oneri per i debitori, dandone comunicazione agli obbligati e agli uffici interessati.”
Si ribadisce quanto detto a proposito della precedente Legge del 1974 in ordine al fatto che è essenziale che qualora il fondo per il culto pretenda l'affrancazione è obbligato a documentare l'importo del canone, al fine di verificare se non è ricompreso fra i rapporti estinti.


3) DEMANIO DELLO STATO
Le sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 7 aprile 2020, n. 7739, che ha ribadito un orientamento consolidato da precedenti sentenze, anche a Sezioni Unite (ad es. sentenza 19 febbraio 2019, n. 4839), hanno confermato il principio della cosiddetta sdemanializzazione tacita.
Quando di fatto un bene del demanio perde la sua funzione, in quanto non è di fatto destinato all'uso pubblico, e non fa parte del demanio necessario di cui all'art. 822 codice civile, e salve espresse eccezioni che vietano questa fattispecie, indicate dalla Corte nei beni del demanio idrico (art. 35 c.n.) e del demanio marittimo (art. 947 c.c.) si verifica la cosiddetta sdemanializzazione tacita, il che consente che gli immobili vengano usucapiti come quelli dei privati.
La sdemanializzazione, in sostanza, anche quando fosse accertata da un provvedimento amministrativo, si è già verificata avendo detto provvedimento natura ricognitiva, e pertanto i beni sono suscettibili di essere usucapiti dai privati.
Testualmente la sentenza:
deve essere chiarito che l’art. 829 c.c. del 1942, si pone in continuità con l'antecedente rappresentato dall’art. 429 c.c. del 1865; e, questo, nel senso che il primo prevede che il passaggio di un bene dal demanio pubblico al patrimonio disponibile dello Stato può essere semplicemente dichiarato dall'autorità amministrativa, con ciò riconoscendo espressamente al provvedimento di declassificazione natura esclusivamente dichiarativa, cioè soltanto ricognitiva della perdita della destinazione ad uso pubblico del bene (Cass. sez. I n. 12555 del 2013; Cass. sez. II n. 10817); ricavandosi, da questo, la pacifica conclusione che il passaggio del bene pubblico al patrimonio disponibile dello Stato consegue direttamente al realizzarsi del fatto della perdita della destinazione pubblica del bene, cosiddetta sdemanializzazione tacita, locuzione che evidenzia come la declassificazione prescinde dal provvedimento dell'autorità amministrativa, diversamente da quanto invece previsto dall’atr. 35 c.n., per il demanio marittimo e dall’at. 947 c.c., comma 3, per il demanio idrico (Cass. sez. II, 11/05/2009, n. 10817 del 2009; Cass. sez. II n. 14666 del 2008); cosicchè, cioè prendendo atto di questo, la Corte ha già in passato avuto occasione di chiarire che la regola contenuta nell’at. 829 c.c. del 1942 è rimasta quella stessa dell’art. 429 del 1865, poichè anche oggi, come ieri, trattasi unicamente di stabilire, con un tipico accertamento di fatto, se il bene abbia mantenuto o perduto la sua destinazione ad uso pubblico (Cass. sez. II n. 21018 del 2016; Cass. sez. I n. 5817 del 1981)”.
Pertanto:
a) Molte enfiteusi sono estinte in forza delle leggi del 1974 e del 1985;
b) i beni soggetti ad enfiteusi sono suscettibili, a determinate condizioni, di essere usucapiti, compresi quelli intestati al Demanio dello Stato.

4) MODALITA' OPERATIVE.
E' da valutare nei singoli casi se possiamo procedere con tranquillità a negoziare la piena proprietà.
Se abbiamo un titolo di provenienza di natura derivativo – traslativa che non menziona alcun diritto enfiteusi o livello, e che risulta regolarmente trascritto da oltre vent'anni (ma io direi anche da oltre dieci anni ex art. 1159 cod. civ. essendo l'acquirente in buona fede), il possesso continuato di chi ha acquistato con un atto derivativo traslativo (che ai sensi dell'art. 1143 cod. civ. è documentalmente dimostrato dall'averlo acquisito nell'atto di provenienza, e dal fatto che ne dispone al momento della rivendita) consolida in via definitiva in capo alla parte la piena proprietà.
Ed è un consolidamento che non risulta da mera dichiarazione di parte, ma è documentale.
L'intestazione catastale di diritti del concedente, in questo caso, non ha alcuna rilevanza, e l'Ufficio del Territorio è tenuto a cancellarla. Esiste ed è attualmente vigente infatti una norma che impone che qualora venga negoziata la piena proprietà, nonostante la mancanza di continuità nell'intestazione catastale, l'apposizione della annotazione “con riserva di verifica dei passaggi intermedi”, dopo vent'anni dalla acquisizione in piena proprietà, deve essere cancellata.
Articolo 12 della Legge 1 ottobre 1969 n. 679:
Art. 12.
(Formalita' relative all'annotazione di riserva)
L'annotazione di riserva, prevista dalle vigenti disposizioni
catastali, viene apposta negli atti dei catasti terreni ed edilizio
urbano, tanto nella motivazione della voltura quanto in
corrispondenza delle singole particelle od unita' immobiliari urbane
cui l'annotazione si riferisce.
L'annotazione apposta alle particelle o alle unita' immobiliari
urbane viene registrata nei successivi passaggi o frazionamenti, e
puo' essere cancellata su domanda del possessore cui le particelle o
le unita' immobiliari urbane risultano intestate.
La domanda di cancellazione deve essere corredata dalle copie
autentiche degli atti idonei a dimostrare l'estinzione dei motivi per
i quali la formalita' era stata accesa; tale documentazione non e'
necessaria qualora sia trascorso un ventennio dalla data dell'atto
che dette origine all'annotazione di riserva.
Ove la domanda di cancellazione venga respinta e' ammesso il
ricorso alle commissioni censuarie, entro 30 giorni dalla avvenuta
notificazione della relativa comunicazione motivata dell'Ufficio
tecnico erariale.”
Io rticolo 12 della Legge 1 ottobre 1969 n. 679."
Pertanto trattasi quasi sempre di annotazioni che non hanno alcuna efficacia.

 

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