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L’indagine sulla volontà delle parti

28 ottobre 2020

Ancora una volta, nel giro di pochi mesi, la Cassazione torna a “svalutare” l’apporto del notaio in ordine alla indagine di quella che è la volontà delle parti.
A fronte di orientamenti deontologici molto rigorosi, che pongono tale indagine come elemento centrale della attività notarile, si riscontra un orientamento di Cassazione che la mette in secondo piano rispetto all’interpretazione di tale volontà fatta al di là della sua stesura tecnica da parte del notaio.
Si è già commentata su questo sito l’ordinanza della Corte di Cassazione (n. 26263 del 16/10/2019 – Sezione Sesta) che ha statuito che qualora le parti abbiano dato al notaio l'incarico non di redigere un contratto, ma di ripetere un negozio (già in precedenza formato e sottoscritto) in forma pubblica ai fini della trascrizione, vi è una “significativa attenuazione degli obblighi riferiti al controllo della effettiva volontà delle parti, in presenza degli impegni già in precedenza irrevocabilmente espressi e reciprocamente assunti”.
E in quel caso la posizione della Cassazione è certamente convincente e da accogliere stante che precisa in quali termini modulare il contenuto dell'incarico professionale conferito al notaio, onde evitare inutili duplicazioni e ripetizioni di attività già espletate molto spesso da altri professionisti che hanno negoziato il contenuto in contraddittorio fra loro, e in dettaglio.
Con precedente sentenza (n. 12683/2017 punto 5) la Cassazione, in ordine alla autenticazione di scritture private, consente che l'accertamento della volontà delle parti in esse contenuta, lungi dal dovere passare necessariamente attraverso la lettura della scrittura privata alle parti (qualora trattasi di atto soggetto a pubblicità commerciale o immobiliare e come deve di norma essere ai sensi del codice deontologico notarile), possa essere ricavata anche da altri elementi, qualora le parti abbiano esonerato il Notaio dalla lettura della scrittura, in tutto o in talune parti.
Nella recente ordinanza n. 21858/2020 della Seconda Sezione Civile del 1° luglio 2020 la Cassazione va molto oltre, dichiarando testualmente che “Inoltre, non è appagante il richiamo al fatto che la clausola sia stata redatta da un tecnico del diritto quale è il notaio, poiché l’interpretazione del contenuto del contratto va condotta con riferimento alla volontà delle parti stipulanti, non del notaio; di talchè la consapevolezza di quest’ultimo sul significato tecnico delle espressioni utilizzate non soltanto non è rilevante, ma appare addirittura fuorviante, ai fini dell’indagine sulla effettiva volontà dei paciscenti”.
E di seguito, nell’affermare il principio di diritto a cui la Corte D’Appello, in sede di rinvio, dovrà uniformarsi, testualmente si pronuncia come segue:
Nell’interpretazione della clausola contrattuale costitutiva del diritto reale di servitù di passaggio occorre indagare esclusivamente la volontà delle parti, restando irrilevanti quella del notaio rogante e di eventuali altri professionisti o ausiliari, coinvolti a vario titolo nella redazione dell’atto. Non è quindi possibile far derivare alcuna conseguenza dal grado di consapevolezza che il notaio, o i predetti diversi professionisti e ausiliari possano avere avuto di una specifica clausola o espressione letterale in concreto utilizzata nell’atto costitutivo del diritto reale.”
Come se vi fosse addirittura una volontà del notaio, (e non invece un una attività professionale finalizzata all’adeguamento della volontà delle parti agli istituti giuridici che ne regolano gli interessi che esse vogliono raggiungere) in contrasto con quella delle parti.
Affermazioni che demoliscono tutto l’impianto del codice deontologico in materia di indagine sulla volontà delle parti: pare di capire da tale ultima ordinanza che è come se vi fosse una volontà delle parti che il notaio ha rimodellato, plasmato dandone una trasposizione in un linguaggio che ne ha deformato l’intenzione, operando addirittura in modo fuorviante.
Come se si volesse dire che la volontà delle parti va riprodotta nel rogito in modo per così dire “grezzo”, senza inquadrarla nei corretti istituti giuridici ad essa conformi (ciò infatti sarebbe “fuorviante”), per consentire di risalire alla reale intenzione delle parti.
Questo appare obbiettivamente una alterazione di una parte essenziale della attività notarile.
Perché è proprio della attività notarile “tradurre” in termini tecnici l’intento delle parti al fine di evitare il più possibile che una loro inesatta espressione o qualificazione sia fonte di controversie.
Giusto per inquadrare il caso che ha originato l’ordinanza, si trattava di una servitù costituita a carico di un fondo appartenente a due soggetti, uno dei quali era altresì proprietario del fondo dominante.
Si esclude che nel predetto caso la servitù possa considerarsi apposta su cosa propria, trattandosi di bene in comproprietà.
Tutto verteva nella interpretazione di una clausola, inserita nel rogito, in cui si prevedeva che la servitù fosse esercitata su terreni di proprietà di terzi, nulla precisandosi in ordine all’esercizio su altra proprietà dei danti causa.
La Corte D’Appello aveva dato rilevanza decisiva alla clausola per come strutturata dal notaio in quanto tecnico del diritto, e la Cassazione si è invece espressa nei termini sopra esposti.
Sono due sentenze in questa direzione, per casi diversi, ma certamente in totale contrasto con gli orientamenti del notariato e dei relativi organi disciplinari.
Non possiamo che prendere atto di tale orientamento, e, quanto meno sotto il profilo disciplinare, prendere atto che fermo restando l’obbligo in ordine a tale indagine, previsto dalla Legge, esso viene di gran lunga attenuato.

 

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